ATTORI PRINCIPALI: Scarlett Johansson, Adam Driver Laura Dem, Alan Alda, Ray Liotta, Merritt Wever, Mark O’Brien, Azhy Robertson, Brooke Bloom, Julie Hagerty, Matthew Shear, Kyle Bornheimer, Mickey Sumner, McKinley Belcher III, Wallace Shawn, Amir Talai
REGIA: Noah Baumbach
SCENEGGIATURA/AUTORE: Noah Baumbach
COLONNA SONORA: Randy Newman
FOTOGRAFIA: Robbie Ryan
PRODUZIONE: Usa
GENERE: Drammatico, Commedia
DURATA: 136 minuti
Si ride, si piange, si vedono fantasmi, si sentono il peso e la forza dell’aver amato e di amare, sempre e comunque.
È un po’ come la scoperta della conservazione dei beni culturali, no, scherzo, (e sono inopportuna), magari fosse così importante quanto trascurabile, (forse), no! Qui si parla di sentimenti profondissimi ed emancipazione della propria identità: nel film c’è tanta sofferenza; da spettatori si avverte il dispiacere per lo sviluppo inesorabile di molte situazioni, e la consequenziale rassegnazione che ci accompagna in questo viaggio di scoperta della “separazione” di Charlie e Nicole, (il regista teatrale e la sua musa attrice, che adesso lavora anche per la TV), è unita a un’aura misteriosa di saggezza, la quale definisce i limiti di questo racconto, che ad un certo punto s’arresta e, però, boh, non so quanto in realtà possa scatenare l’ ammirazione per i personaggi che lo sostengono più della malinconia per le loro sorti.
Del lungometraggio di Noah Baumbach ho detto poco in precedenza, in compenso l’ho sentito addosso, molto.
E’ una storia sulla sopravvivenza insita nella natura di chi si deve collocare sulla linea del tempo, (che per i più fortunati, per i caduti in amore, non esiste, o segue una diversa traiettoria, ma questa è una digressione, siamo agli “sconfini” con la divina matematica, concedetemelo).
Dicevamo è la storia di chi, nei giorni della disfatta della sua sfera di vita privata, quelli che si delineano da un certo punto in poi dell’esistenza – dicesi “trauma”- ha a che fare con la rivelazione, nuova ma profondamente “identitaria”, di essere una conseguenza, di essere qualcuno che soccombe, suo malgrado – ma anche per suo volere – al termine di qualcosa che è potente e misterioso allo stesso tempo.
Pertanto costui e costei, gli amanti traditi, necessitano di bellezza e vigore, di consapevolezza del proprio valore per tornare ad essere in vita. È’ proprio questo status quo dell’individuo immerso nella relazione profonda ormai al crepuscolo, desolato, che mette a nudo la capacità dei due protagonisti di cercare, alla fine di un duro periodo di transizione, di scovare al limite della rabbia violenta, della dispersione e dell’odio, i ricordi magnifici del bellissimo tempo perduto e le piccole intense rivelazioni del quotidiano; è il dolore del distacco che si fa acuto ed invita a seguire questo moto nostalgico dell’anima che si fa baluginoso nel tempo presente, ormai stravolto.
Tale periodo passionale e svilente di rottura di un legame d’amore, anche fuori dal film è per alcuni molto più triste e difficile da affrontare piuttosto che per altri; e il lungometraggio mostra quest’aspetto angoscioso dell’interruzione di un rapporto importante che si è intessuto nel tempo con qualcun altro, il quale magari si trova ad essere anche l’artefice della disfatta dell’equilibrio condiviso da entrambi i partner – raggiunto tramite la relazione – e che pertanto indossa la maschera sociale di colui o colei che stabilisce la fine dei giochi.
Marriage Story è un film orchestrato a puntino; ce lo svela al primo sguardo il grado di comparazione del dolore dei due ex giovani coniugi: è ben chiara la fatica maggiore che comporta per Charlie, (un magnifico Adam Driver), dover affrontare la novità del divorzio rispetto a sua moglie Nicole, la quale pure soffre immensamente, non c’è dubbio.
Basti pensare, da un certo punto in poi della storia raccontata da Baumbach, a quanto sia in declino l’identità tonda del personaggio maschile rispetto a quello femminile; alla differenza e alla distanza che intercorrono tra la sua personale elaborazione dell’accaduto, (con tanto di tribolazioni e scoppi di pianto nervoso), e lo smarrimento di lei, che pure con amarezza, tristezza e difficoltà emotiva, sembra voler ritrovare una parte della sua sfaccettata personalità grazie alla separazione.
Infatti questo lungometraggio è anche la storia di rivalsa sociale, di scelte radicali e di afflizioni di una donna, interpretata dalla bravissima Scarlett Johansson, che, negli anni di matrimonio, nonostante fosse stata sempre innamorata, si era lasciata sopraffare dall’indole sacrificale del prendersi cura, e la qual cosa l’aveva “entusiasmata” per tanto tempo. (Il meccanismo poi rivela i suoi limiti, i quali vogliono essere superati: ognuno in questo mondo ha dei desideri e delle ambizioni personali indipendenti dai rapporti affettivi). Forse la vera separazione di Nicole è quella dall’altra Nicole, la donna che nel matrimonio si è lasciata guidare dall’altro.
In tutto questo magma di complicatissima comprensione, in quanto sono protagonisti della storia i sentimenti, ad inferocire i rapporti tra gli (ex) amanti – e a portarli all’esasperazione – ci sono i consigli di terzi, che molte volte spezzano quasi del tutto le relazioni – e questa è una realtà assurda ma vera – nel caso specifico del film si tratta degli avvocati dei due protagonisti, principalmente la fedelissima avvocatessa di Nicole.
“Sullo sfondo” del quadro della storia, in seconda o terza istanza, è stata affrontata la questione della famiglia allargata e di come sia difficoltoso rapportarsi ai parenti acquisiti e agli affetti, tutti in condivisione durante la relazione amorosa.
Abbastanza rilievo è stato dato dall’autore al tema della figura e funzionalità del figlio durante l’abisso sentimentale che si affronta nello svolgimento delle pratiche per il divorzio: da giovanissimi, i due protagonisti hanno avuto un bambino, ora usano l’argomento della sua custodia come termometro di mercurio per misurare il grado di egoismo dell’altro e il temperamento della propria fatidica resistenza in nome del suo amore. É quando entrambi passano del tempo con il figlio che si accorgono di non avere più il pieno controllo del loro ruolo e delle loro emozioni e ne sentono il dispiacere, tipico della fragilità umana, unito ad una leggera e tacita compassione per la loro sorte e per quella dell’ex. Direi che questa sui genitori che si separano – e sulla sofferenza per e dei figli che ne consegue – sia una riflessione centrale nella società occidentale odierna.
E’ nucleo della storia di Baumbach l’essere “single”, o comunque individui non più inseriti in acque medicamentose che lasciano galleggiare l’umano con serenità, magari immerso nelle stesso liquido di chi lo conosce meglio da adulto, il partner, nel tepore di una stessa casa, nelle atmosfere concilianti o disorientanti, che in molti frangenti ispirano la felicità del sentirsi amati. Più specificamente, durante e dopo il film, il fulcro della mia riflessione è stato determinato dal “cosa significhi essere nuovamente con se stessi, soli, in solitudine”, quanto questo fatto possa metterci alla prova come esseri viventi che affrontano un inferno emotivo dispersivo a seguito di una rottura, il quale deve tradursi per forza in un riassetto organizzativo, a dispetto e a favore dei sorrisi e del prendersi cura degli altri,che pure si muovono nell’ambiente che ci circonda; che “bussano” ed entrano comunque,(come per esempio farebbero dei figli, nel caso ci fossero).
E poi – lasciamola così questa frase – difficile è reinventarsi e resistere ai colpi bassi inferti dall’ ex restando comunque protagonisti dignitosi dei nuovi scenari che si affacciano alla vista e alla comprensione, con cui si deve assolutamente negoziare.
Avrei preferenza di suggerire agli altri spettatori che il film di Baumbach abbia una scrittura “ottima”: si raggiungono vette altissime di narrazione “liricheggiante”, specie nei confronti a due dei protagonisti; senza dimenticare l’assolo di Adam Driver ,” Being alive”, un climax che dà i brividi; le situazioni comiche sono artatamente costruite, con tanto di personaggi secondari molto seducenti, ma anche qualche cliché di troppo,(nonostante le scene grottesche, tipiche delle commedie americane, siano in armonia perfetta con tutto l’impianto descrittivo e aggiungano enfasi ai momenti drammatici); ma soprattutto è da porre il rilievo il cast eccellente del film!
Adam Driver e Scarlett Johansson sono le mie due Coppe Volpi, (se si esclude Joaquin Phoenix in Joker, che ormai sta sull’Olimpo).
Ad uno spettatore che avesse sofferto a causa della rottura di un legame intimamente cementato in precedenza, questo film riecheggia quello stesso strazio che, per un nuotatore a livello agonistico, sarebbe il dover restare a galla nonostante lo sfinimento psicologico che un cambio di corrente improvviso – per quanto non possa essere istantanea la rottura di una relazione amorosa – costringerebbe ad affrontare il mare aperto, (tormentato e resistente alle sue bracciate); ed egli dovrebbe continuare ad essere riluttante, alla soglia della sua capacità fisica, a rischio di restarne sommerso.
Solamente che i tempi di sviluppo della storia personale di due che si stanno separando – e si chiamano “amore” un attimo prima di mandarsi al diavolo -sono diversi, e il “problem solving” su larga scala temporale comporterebbe altri discorsi da intessere: ciò che è comune a questi due protagonisti è la caduta immediata in una spirale costante che si chiama “solitudine”, egregia nel suo eterno movimento, che risucchia energie e sfinisce su più fronti. E’ comune ai Charlie e Nicole anche il dover risolvere i tantissimi nuovi problemi apparentemente insormontabili da gestire, è comune ai due, ad un certo punto, il provare a rispettare l’altro, il quale era diventato sofferente nella relazione, per cui, dopo tanta rabbia, i due personaggi hanno modo di provare una forte nostalgia – che allo stesso tempo dà sollievo -semplicemente abbandonandosi al ricordo dei momenti di affetto vissuti con l’altro, ancorati ormai al passato, forse,(se non fosse per le scarpe slacciate e i capelli che continuano a crescere).
Puntualizzo che si tratta di una separazione di due persone che si sono amate molto, non è superfluo dirlo, davvero! Le immagini lo dichiarano sin da subito: è magistrale l’incipit della sequenza romantica d’avvio narrativo del film, che fa da contraccolpo a quanto verrà poi mostrato della storia, e resta l’ancoraggio di una struttura semicircolare del racconto filmico, facendo l’occhiolino allo spettatore e ricordandogli alcuni capolavori Disney, o qualche commedia cult americana entrata nel consumo di moltissimi spettatori.
Concludendo, Charlie e Nicole: l’interruzione del loro matrimonio, (per come essa è trattata nel film), si rivolge a tantissimi di noi… che fatica! Quanta amarezza! Eppure la necessità di sviluppo e crescita personale, almeno così sembra suggerire appena Baumbach, forse lo richiede.
Al termine di “Marriage story”, in definitiva, ti viene quasi da pensare che, se non le relazioni, almeno i legami profondi, qualunque sia la loro evoluzione, sono indissolubili, in qualche modo; ma serve tempo per comprenderlo ed accettarlo; che non possiamo scegliere e controllare gli eventi e che molte volte dire “peccato” è dettato dal cuore e non è una forma di autocompiacimento.
Anna Moretti