Il delitto Mattarella: recensione

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Appassionante, fedele ai fatti, intriso di intrecci storici e didascalie esplicative del contesto politico e storico entro cui il delitto Mattarella si è esplicato: queste le caratteristiche salienti del nuovo film diretto da Aurelio Grimaldi, che segue passo passo il delitto di Piersanti Mattarella, Presidente della Regione Sicilia, ucciso a Palermo nella centralissima Via Libertà, il 6 gennaio 1980.

Un film dalle atmosfere veloci e coinvolgenti, che riesce a incollare agli schermi fin dalle prime immagini, facendo riflettere sulla dura lotta per la supremazia dell’anticorruzione e della legalità.

Ecco che, seguendo i fatti storici, il film conosce un inizio tragico nella morte di Piersanti Mattarella, uomo “onesto e clemente nei confronti degli altri, che decideva di non utilizzare la scorta nei giorni di festa perché riteneva più urgente che gli uomini della sua scorta si occupassero della propria famiglia”.

Un inizio dai tratti emozionanti in cui fin da subito iniziamo ad apprezzare l’Uomo Mattarella prima che il politico cresciuto politicamente nella corrente riformista guidata da Aldo Moro, in contrapposizione ai conservatori guidati da Andreotti e vicini alla mafia, come ben verrà esaminato nella seconda parte del film.

Dall’omicidio un breve flashback ci accompagna quindi verso la cronaca dei mesi precedenti la strage, attraverso le infruttuose inchieste messe in atto dal Mattarella rispetto al sospetto appalto delle sei scuole di Palermo, un Mattarella che voleva veramente cambiare le cose rendendo innanzitutto trasparenti gli appalti (nello specifico l’appalto sospetto risulterà poi in effetti nelle mani di personaggi quali Rosario Spatola e Stefano Bontate, noti volti di Cosa Nostra). Una lotta per la democrazia e la legalità, che legava inesorabilmente Mattarella alla corrente del PCI e alla figura di Pio La Torre, e sentenziò per entrambi una comune tragica fine.

Due opposte fazioni, la corruzione pubblica incarnata nella figura storica di Vito Ciancimino, e la trasparenza amministrativa, quella appunto di Mattarella, necessariamente in conflitto, come appare dai toni accesi dei dialoghi tra i due personaggi, mentre sullo sfondo aleggia la figura del giovane Fioravanti, riconosciuto con certezza dalla vedova Irma Chiazzese, ma mai condannato per la morte del marito di quest’ultima.

Una pista, quella dei killer neofascisti, rappresentati dal Fioravanti (a 25 anni già latitante, neofascista sanguinario e violento, lo stesso che a 30 anni si era autoaccusato di una ventina di delitti), e respinta dal Tribunale di Palermo, che assolse gli imputati nonostante il riconoscimento del giovane in ogni sede processuale.

E poi infine la figura di Andreotti, colpevole di omissione, come da sentenza di Cassazione, che stabilì inequivocabilmente il suo incontro con Stefano Bontate subito prima dell’omicidio Mattarella, e la conoscenza del fatto che Cosa Nostra intendeva eliminare quello scomodo politico onesto, seppur a questa conoscenza non fosse mai seguita alcuna azione utile a proteggere il compagno di partito.

Il delitto Mattarella, un film di rievocazione e commemorazione, in una lotta alla mafia e all’illegalità che negli anni avrebbe conosciuto la mano del giudice Giovanni Falcone, icona dell’anticorruzione, nel film alle prese con l’indagine inascoltata sull’appalto sospetto delle scuole di Palermo, in un dialogo quasi surreale con la figura di D’Acquisto, dal sorriso sarcastico e dalle volontà di seppellire machiavellicamente l’indagine perché “non dobbiamo forse garantire ai bambini lo svolgimento delle lezioni?”.

Un amaro ritorno del dolore per la Storia e la famiglie, nella strage di Capaci, prima, e di via D’Amelio dopo, che lascia l’amaro in bocca, forse facendo per un attimo dubitare dell’utilità della lotta alla mafia, a fronte anche dell’irrispettoso dato per cui nessuna via è stata mai dedicata a Mattarella nella città di Roma.

Ecco che a tratti il sorriso freddo del D’Acquisto e le grida inascoltate della moglie di Mattarella, tanto simili alle lacrime senza sosta della vedova di Vito Schifani, potrebbero far scoraggiare, ma in realtà è solo un attimo, di umani sconforto e disillusione.

Come nella lotta strenua tra Bene e Male, che non può non conoscere rovesci e contraccolpi, il film pare suggerire che, benchè la morte dei Giusti è quanto di più ingiusto si possa concepire, essa segna una tappa della lotta alla corruzione e lascia un segno nella memoria collettiva, scuotendo la consapevolezza che il Marcio esiste, ed è più vicino di quanto si pensi. Poiché è talvolta ben dissimulato in quella politica arrivista e clientelare che dovrebbe invece svolgere la sua funzione naturale già delineata da Platone, quale “organismo educativo collettivo nei confronti del singolo, finalizzato al bene comune, nella sua accezione di organismo etico-morale”.

Angela Ganci Psicoloterapeuta, giornalista 

Info:  http://www.artepsichesocieta.it/?doing_wp_cron=1594234291.9161410331726074218750


 



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