“I miei film abitano in due mondi differenti. Uno è l’universo del Quentin di Pulp Fiction e Jackie Brown, esagerati ma più o meno realistici. L’altro è l’universo del Film. Quando i personaggi dell’universo di Quentin vanno al cinema, vanno a vedere roba ambientata nell’universo del Film. Sono cioè delle finestre su quel mondo. Kill Bill è il primo film ambientato nel Mondo del Film, in cui le convenzioni e i cliché cinematografici vengono abbracciati in maniera quasi feticista, al contrario del mondo di Pulp Fiction, in cui la realtà si scontra con le convenzioni filmiche.” Quentin Tarantino.
C’è da chiedersi a quale mondo, universo o galassia appartenga il nono film del regista americano prodigio dal titolo sognante “ONCE UPON A TIME IN HOLLYWOOD” – qui è lampante fin da subito l’omaggio a Sergio Leone – difficile designarlo. Forse c’è una terza via che potremmo percorrere utilizzando una chiave di lettura alternativa per inoltrarci tra le articolare reti dei significanti di questo racconto: Siamo in un’atmosfera ormai appartenente al passato, il 1969, tuttavia ciò è vero solo da un punto di vista prettamente cronologico, dato che, nell’ intreccio dei personaggi e delle loro vicende, i fatti realmente accaduti e la finzione del sogno cinematografico si sovrappongono e disputano una gara “a chi la spunta” Bisognerebbe indovinare quale rebus dell’immaginario filmico metta in atto stavolta il celebre Quentin, l’uomo che muove montagne di appassionati quando consegna al pubblico una sua opera “nuova”,creando scompiglio nelle nostre menti, (e non lo dico per esagerare)
Se è verosimile affermare che nel mercato odierno, saturo d’immagini, l’autore contemporaneo della settima arte dev’essere colui che assembla i pezzi, in ONCE UPON A TIME IN HOLLYWOOD l’intera filmografia “tarantiniana” viene addirittura smontata, messa in confusione e rimontata consapevolmente dal regista, seppur con ardita arguzia. (Basti vedere il riempimento di particolari, direi ai limiti dell’eccesso, di alcune sequenze a discapito di altre)
Risultante del processo è un film costruito a ritmo di musica -anche questa volta la colonna sonora è eccezionale,scelta per chi vuole sentirsi vivo con i dischi pop e rock della fine degli anni sessanta.
Il montaggio sonoro presenta un’alternanza di musica che fluisce distesa nelle sue pause contemplative, e muta di tono divenendo “energizzante” nel ricorrente utilizzo del soul e del blues.
In questo senso la pellicola in 35 mm realizzata da uno degli autori più sperimentali dell’occidente è un film archetipico di un modo d’intendere le storie in un’ottica sia fatalista che inverosimile, ma pur sempre animata da personaggi detentori di autenticità, almeno per quel che concerne i rapporti umani e le atmosfere intorno, a condizionarli. E’ utile dire che da sempre la linea poetica di Quentin si propaga indefinitivamente in molte direzioni narrative e interseca tutti generi cinematografici.
E’ un fatto storico il massacro di Sharon Tate, la Star icona di bellezza degli anni sessanta, e dei suoi amici compiuto da ragazzini vittime dell’istinto di ribellione adolescenziale che, sotto il tutorato di Charles Manson, si erano costituiti come famiglia alternativa; ciò che bisogna sottolineare è che un tale evento incise un taglio trasversale nella torta Hollywoodiana, scomponendo l’immagine di quella ruota della fortuna del CINEMA che chiunque nel mondo era solito mitizzare, almeno fino a quel momento.
Il pluriomicidio realmente accaduto nell’agosto del 1969, all’indomani dei moti sessantottini di rivalsa dei giovani, che crearono cellule alternative alla società, mine vaganti, viaggia in parallelo, nelle nostre teste da spettatori attenti,come una bomba pronta a riesplodere. Difatti la cronaca di allora raggiunse l’apice dell’orrore , superando qualunque invenzione artistica del mondo cinematografico; era un presagio dell’ inautenticità dell’individuo che, privo di ancoraggi, aveva l’esigenza di insorgere contro la famiglia di sangue e i fantasmi della storia, sentiva addosso l’obbligo di farsi strada in maniera aggressiva, quest’ultima considerazione, a mio parere, è il fulcro d’interesse a cui Quentin si è legato in maniera vorticosa per delineare lo sviluppo narrativo del film.
Tuttavia nel suo film la Sharon Tate interpretata da Margot Robbie viene salvata dalla morte grazie ai suoi vicini di casa, due personaggi inventati dall’autore, e ciò si compie per puro caso, (è giusto dirlo in quanto il prestigio di ONCE UPON A TIME IN HOLLYWOOD sta tutto nell’averci immersi come spettatori in un’atmosfera in cui è divina la fatalità degli eventi, propria di un racconto magico che si sviluppa maestoso sul grande schermo, per mezzo di una trama volutamente confusionaria in cui trionfa il grottesco intreccio degli eventi).
ONCE UPON A TIME IN HOLLYWOOD mostra che, l’innamorato della realtà alternativa del Cinema, un front-man mai arrivato ad ottenere ruoli più ambiziosi ,Cliff Boot, (alias Brad Pitt), nella finzione filmica del “C’era una volta hollywoodiano…” si isola dal mondo attraverso l’amicizia affettuosa con un divo dello Star System, malinconico e fragile, in caduta libera verso l’interpretazione di spot di mercato e la mediocre serialità, Dick Dalton (alias Leonardo Di Caprio), il quale, a sua volta ,si trova ad essere vicino di casa dell’autore dell’horror più famoso di quegli anni: Roman Polanski,( Rafał Zawierucha), e della sua bellissima moglie, Sharon Tate.
Il minimo comune multiplo di tutti questi personaggi è il desiderio di condurre un’ esistenza alternativa, fuori dalle opache derive di una vita puntigliosa e priva di sbalzi emotivi, di impennate e di ancore di salvezza oniriche
Ciò è vero per Cliff, per Dick, per Sharon, per Charles Manson,(interpretato da Damon Herriman, già in questi panni per la serie Netflix “Mindhunter”), e per tutta la “Manson Family”– la Comune del deserto della California, che ospita polvere ed estraneità per scelta,( in cui figurano tra le interpreti le nuove giovanissime stelle del firmamento Hollywoodiano odierno, una fra tutte Margaret Qualley, che nel film è Pussycat) –
E’ verosimile affermare che lo stesso agente di successo Marvin Shwarz,( interpretato da Al Pacino), abbia consacrato la sua intera esistenza alla realtà alternativa del cinema, come pure hanno fatto il Polanski principesco,(disegnato dai costumi di Arianne Philips), e il suo miglior amico innamorato di sua moglie, quasi loro convivente e frequentatore di feste da sogno. E altresì tutto fuorchè personaggi sereni e votati ad un quotidiano “ordinario” sono Steve Mc Queen,( interpretato da un magistrale Damian Lewis) , e Bruce Lee character di Tarantino, umanizzato e impulsivo,( interpretato da Mike Moh) .
Potrei continuare per molto, questo è un film corale, si avvale di moltissimi personaggi minori interpretati da giganti che “scrivono” la sceneggiatura attraverso i loro cameo, anche se i due protagonisti sono i due amici agli antipodi, nei cui panni Leo e Brad hanno raggiunto le vette della loro carriera da attori, a mio giudizio
Lontano dagli effetti storici di questa overdose dell’altrove,che si traduce in fatti sanguinosi, e lungi dal voler fornire commenti a tal proposito, Tarantino si limita perciò a delineare essenzialmente la dimensione favolistica del modo di “sentire” dei diversi personaggi da lui creati e ricreati, cioè quel sentirsi carichi di sogni, pertanto la loro “fuga dalla realtà”è un bisogno esistenziale in cui convergono paure, confusione, senso di rivalsa, deriva angosciante e malinconica del loro presente rispetto al passato, vittoria e sconfitta di quest’ultimo attraverso le loro fantasie e i loro sogni d’anarchia
Per cui il pregio del finale del film sta nel cambio di segno dei fatti realmente accaduti: tutti sono killer e tutti sono vittime del sogno Hollywoodiano. Dick è infastidito dall’utilizzo che deve fare di un lanciafiamme in una scena di finzione in uno dei suoi film, e nel finale surreale della storia di Tarantino questo personaggio pauroso, viziato e piagnucolone uccide i suoi nemici con l’oggetto temuto, tra l’altro custodito nella sua lussuosa villa . Il cinema cambia dunque la misura delle emozioni umane, tutto è possibile
La settima arte è un gioco a cui Tarantino assurge alla disponibilità completa della sua creatività e del suo amore indiscusso per certo cinema, risultando pertanto essere l’ amante e fruitore dei film, dei suoi quanto di quelli altrui. Colui che firma il film è un Tarantino entusiasta e nostalgico che dimostra di essere, ancora una volta,(e superando se stesso), uno degli autori del cinema occidentale contemporaneo che più sanno mettersi in gioco.
Posso quindi azzardarmi nel dire che il presunto penultimo film di Tarantino è fuori dal tempo e dagli spazi ben definiti dai margini della realtà per sguazzarvi dentro, come solo lui ama fare.
In definitiva ONCE UPON A TIME IN HOLLYWOOD esprime l’idea che il cinema si fondi sulle relazioni, sui sentimenti, che risuoni nei cambi improvvisi d’umore dei personaggi, così come l’amicizia istintiva e longeva dei due protagonisti- l’uno controfigura dell’altro – la quale fa da sfondo, inequivocabilmente, al nucleo semantico di questa nuova storia sritta e diretta da Tarantino.
Ma come avviene visivamente questo montaggio di significati nel film? Attraverso gli sguardi.
Se è vero che ogni uomo ha il suo sguardo – anzi ogni occhio ne ha uno suo, personalissimo – l’attore famoso in crisi da declino e la sua spalla -nonché balia- non potrebbero guardare e vivere Hollywood in maniera più difforme.
E ancora, se il Cinema sta a Quentin Tarantino come i piedi femminili stanno ad Eros, allora la Los Angeles degli anni sessanta sta ad una fiaba come una Matrioska russa ad ogni suo formato, di cui il seme è la maschera da indossare sia per Dick Dalton, (star la cui fama è in declino), che per Sharon Tate, la bella moglie di Polanski – che tra l’altro è, per contro, la star più famosa di quei tempi, (ricordiamolo ancora una volta!) – Ribadisco anche un altro concetto: se è vero che il massacro avvenuto cinquant’anni fa, in cui l’attrice ha trovato la morte, ha tinto di nero quel mondo meraviglioso, è altrettanto sincero il desiderio di questo film di potere e voler cambiare il colore il HollyWood, la quale agli occhi di Tarantino rimarrà perpetuamente una favola sognante e ricca di ironia e sfumature.
Del resto “Se puoi sognarlo puoi farlo” diceva Walt Disney, colui che ha consacrato i sogni di tutti i bambini attraverso la settima arte e li ha resi enormi sullo schermo -non a caso quest’eroe viene esplicitamente citato nel film di Tarantino da un’attrice bambina, ossequiosa e ligia al suo dovere di imparare la parte,(questo ruolo bellissimo è stato affidato alla magistrale Julia Butters, che ha soli 10 anni).
Possiamo avviarci verso la conclusione di questo excursus magico e alquanto strambo alludendo al fatto che questa fanciulla sia lo snodo concettuale della ribalta di Dick : ella, con il suo stupore misto a determinazione, smuove il magma cascante della frustrazione che adombra il talento dell’attore melenso, il quale rivive il racconto Western con ostinata vocazione alla performance dal vivo. Credo che la lunga sequenza della messa in scena del riscatto di Dick come attore sia perfetta e magnifica, che sia puro meta cinema
E di maschere ne indossa molte -e tutte autentiche- il suo alter ego,l’enigmatico stunt-men tutto fare Cliff Booth; forte nel combattimento improvvisato con Bruce Lee, provocatore senza troppe parole, privo di troppi fronzoli ma grande istigatore, concreto, saldo, folle nello sfidare il pericolo e la velocità, attento a non approfittarsene delle ragazzine – “Polanski,questa fa male” – uomo lungimirante che vive alla giornata e autista integerrimo, un enigma con un fascino pazzesco: ad un certo punto del film Cliff è sul tetto della villa di Dick per aggiustare un’antenna, nella casa di fronte Sharon Tate ascolta la musica, assorta nelle sue divagazioni,più sexy e spensierata che mai. In questo momento del film lo spettatore coglie il segreto di questi personaggi. Grazie alle loro rispettive bellezze, per un attimo, l’ autenticità di entrambi si smagnetizza fino a confondersi,paradossalmente; (considerate che qui le immagini non compiono nessuna prodezza,non si sovrappongono, anzi forse è la confusione dell’ intera atmosfera del film- abilmente costruita – che in questa scena sintetizza l’essenza della bellezza del mondo che Tarantino vuole salvare).
I due vicini di casa, lei e lui, non si sfiorano, restano sospesi nelle loro piccole azioni del quotidiano. In questa scena ci si rende conto che Sharon Tate è stata mostrata nel film da Tarantino come l’innocente e ingenua bellissima attrice, inconsapevole della morte, personaggio deliziato e compiaciuto dall’osservazione in una sala cinematografica delle prodezze di un racconto “alternativo”,un altro film nel film, architettato da macchina mediatica perfetta, in cui figura anche lei stessa, che fuori dallo schermo nessuno sembra riconosce. I
Insomma nell’ultima opera di Tarantino è stato delineato un profilo femminile che funge da una sorta di perno principale- Sharon è la dea di ONCE UPON A TIME IN HOLLYWOOD che, statica, con i piedi comodi appoggiati sulla poltrona, dà movimento all’intero film.
Lo spettatore percepisce pure che Cliff-Brad Pitt, dal un passato discutibile e misterioso, forse è un criminale, forse è il salvatore dell’intera HollyWood, in quanto ad un certo punto ripara un’antenna nella villa di Dick a Cielo Drive, e apparentemente questo suo gesto senza significato potrebbe essere il cuore del racconto cinematografico
Dunque, per tirare le somme, (anche quando ci troviamo di fronte ad un film in cui è impossibile chiudere qualsiasi discorso), se Dio è uno e trino, nelle favole come nella religione, almeno tre sono gli sguardi incantati che osservano uno qualsivoglia dei suoi mondi. In ONCE UPON A TIME IN HOLLYWOOD:
Uno sguardo stralunato e colmo di lacrime e grandi speranze appartiene all’ attore Dick, stella cadente, che prima si lascia andare a crisi nostalgiche e commoventi per poi risalire la china assecondando i consigli iniziali forniti dal suo agente e recandosi in Italia a fare il grande Cinema sotto la direzione di Corbucci, (e qui Dick troverà anche l’amore e consacrerà l’amicizia con il suo stunt-man prima della sequenza finale splatter del film); uno sguardo vigile, solido quanto enigmatico e detentore di profondi segreti appartiene al suo alterego Cliff, nulla possedente, ammaestratore di cani affamati e attori soli, di cui tra l’altro si prende cura per definire meglio la sua identità; infine lo sguardo il cui candore e la cui spensieratezza risultano essere paradisiaci al di là di ogni paradosso è quello di Sharon Tate, che semplicemente osserva se stessa, donna emblema della magia di una HollyWood che non esiste più, ma che esisterà per sempre nei nostri sogni.
Anna Moretti
Titolo originale Once Upon a Time in Hollywood. Drammatico,
Durata 161 min.
Data di uscita: 19 settembre 2019 (Italia)
Botteghino: 344,6 milioni USD
Candidature: Palma d’oro, Premio alla miglior attrice, ALTRO
Case di produzione: Sony Pictures Entertainment, Columbia Pictures, Heyday Films, Polybona Films
Un film di Quentin Tarantino.
Protagonisti: Leonardo DiCaprio, Brad Pitt, Margot Robbie